Il teatro capovolto. Riflessioni su Jerzy Grotowski e la danza
Ci siamo soffermati a lungo in articoli precedenti sulle assonanze fra il campo d’azione del ricercatore spirituale e quello dell’artista contemporaneo, che sia egli un performer o un danzatore. È dal concetto di “ricerca” che siamo partiti come un punto di contatto fra due mondi. E dalla scintilla che scaturisce da questo contatto vogliamo prendere l’ispirazione per pensare un nuovo mondo di intendere la danza, e con essa il mondo della ricerca.
Per porre fondamenta solide però occorre partire da una riflessione basilare: ovvero che non soltanto il fare artistico ma anche per larga parte la spiritualità è ricerca, ovvero un cammino e non soltanto una meta. Questo passaggio implica il fatto per esempio che chi pratica la meditazione trovi il gusto per il viaggio già durante il viaggio stesso, e fa’ si che il campo del ricercatore spirituale , proprio come quello dell’artista, possa essere vissuto come un’avventura.
Questo aspetto dinamico che coinvolge l’esperienza di chi ricerca le proprie verità è di fondamentale importanza, per trovare in quel tipo di viaggio le assonanze che stiamo andando esplorando fra la meditazione e il teatro di ricerca o la Performing Art. In realtà non ci interessa tanto dimostrare come i due viaggi siano simili, quanto piuttosto come l’uno attinga dalle scoperte dell’altro, in un rapporto quasi di scatole cinesi o di interscambio. Come se arte e spiritualità fossero due correnti che si intersecano e a un certo livello si alimentano.
Per questo siamo andati a cercare a ritroso, questa volta nella storia del teatro, chi già aveva rovesciato l’ordine dei processi, relegando più importanza al momento delle prove, ovvero della ricerca, piuttosto che a quello dello spettacolo. E questa figura senza ombra di dubbio l’abbiamo trovata in Jerzy Grotowski, il grande regista di origine polacca, che attraverso le sue sperimentazioni ha esplorato proprio il concetto di produzione dell’espressione, in una sorta di viaggio controcorrente verso una fonte primaria. Del resto lo dichiarò lui stesso, in un’intervista rilasciata a Marianne Ahrne nel 1992, che a un certo punto, quando si trovò a scegliere in quale direzione andare, sentì chiaramente che invece del regista teatrale avrebbe potuto fare lo psichiatra o lo studioso di Yoga e Induismo, ma sempre mantenendo i medesimi obiettivi. Perché era la ricerca il fulcro, non il risultato.
“Lo spettacolo è sempre stato meno importante del lavoro nelle prove. Lo spettacolo doveva essere impeccabile, ma tornavo sempre verso le prove anche dopo la prima”, spiega nel documentario. Come se tutta la sua ricerca sul concetto di azione scenica e di smembramento dell’attore trovasse la sua ragione di esistere in se stessa, in quello che probabilmente è stata una dissezione chirurgica degli organi stessi che compongono lo spettacolo teatrale.
Da qui anche la danza. E ci spieghiamo meglio. Uno degli aspetti affascinanti della ricerca artistica, anche prima di Grotowsky, già dagli anni Sessanta, è stato una sorta di debordare degli ambiti e dei linguaggi, in una commistione postmoderna in cui si perdevano le etichette. Si smarrivano i confini. Danza, teatro, Performing Art diventano un unico grande contenitore adatto ad ospitare la sperimentazione in qualunque forma, secondo un principio volto a destrutturare e a mischiare le carte. Fino a capovolgere il senso ordinario di quegli stessi linguaggi. Si veda a tal proposito l’intervista già citata che postiamo in coda a questo articolo.
Va detto del resto che nel Novecento, come sempre è stato nella Storia, prima ancora di quel tipo di teatro sperimentale, furono le arti figurative a precorrere i tempi. E probabilmente l’artista che in questa prospettiva più di tutti ha rotto gli argini del senso logico nell’opera è stato Marcel Duchamp (anche se in lui non erano presenti vere e proprie scintille di ricerca interiore, quanto piuttosto vigeva un gusto della provocazione). Fu lui il primo a dire “vale tutto“, rovesciando il famoso orinatoio e donandogli un secondo significato. E se da quel bivio creato da Duchamp alcuni presero a giocare con la forma con esiti anche altissimi, come nel caso di Picasso, altri approfittarono di quel varco aperto per provare ad andare alle origini dell’opera nel senso profondo, approfittando del fatto che dopo Duchamp l’opera si presentava disgregata e quindi più facilmente approfondibile -sezionabile- nella sua essenza. Come dice David Linch, che peraltro è un grande praticante di meditazione Vipassana, “la pesca grossa si fa in profondità”. E infatti è proprio questo il contatto fra i due mondi che andiamo cercando.
Una riflessione a parte andrebbe fatta su come tale destrutturazione delle regole dell’opera, e poi dello spettacolo, che è stata affascinante da seguire per svariati decenni, e ha portato a scoperte senza dubbio interessanti, ci abbia lasciato ai giorni nostri un senso di smarrimento, dove il gusto di distruggere le forme ha fatto perdere potenza e quasi dignità all’opera d’arte, che letteralmente traballa se non nei casi peggiori si potrebbe dire che non poggia più su niente. Così, guardando tanta arte contemporanea oggi, l’artista appare come chi cerca di appendere le proprie opere a pareti di sabbia, che non tengono più. Ci domandiamo allora se non possa essere la spiritualità il nuovo collante capace di ridare una direzione a queste ricerche.