La danza contemporanea e la performing art . Due strade diverse che partono dal gesto


Si potrebbe dividere il mondo della danza contemporanea, o per meglio dire del gesto contemporaneo, in due grandi categorie, quella della danza intesa in senso tradizionale, seppure aperta a sperimentazioni di vario genere, e quello della performing art, che invece sorge da una rottura molto più profonda e porta a conseguenze più estreme. In questo articolo proveremo ad approfondire le divergenze fra i due mondi per cogliere l’essenza di questi due filoni.

A dire il vero forse si dovrebbe riflettere sul fatto che è soltanto il corpo del danzatore/performer, con la sua presenza fisica, a fare da punto di contatto. Perché per tutto il resto i modi dell’espressione variano e si allontanano, sia nelle ispirazioni iniziali sia nei risultati finali con differenze enormi  e ben radicate che non stanno tanto in superficie bensì alla base.

La contrapposizione fra performing art e danza contemporanea infatti avviene fondamentalmente sul piano della ricerca, e nelle direzioni che essa prende: ovvero verticale in un caso e orizzontale nell’altro.

Nella performance la ricerca è il fulcro ed è consustanziale all’avvenimento stesso costituendone sia l’origine sia la destinazione. Tutto questo ben al di là della forma finale restituita al pubblico. La ricerca è inscindibilmente legata all’esperienza del performer, tanto che questa diventa quasi sempre il terreno favorevole per una scoperta, la quale avendo la funzione di “ rompere”, che sia uno standard, una forma o un codice, porta con sé la magia delle epifanie. Insomma la ricerca nella performance crea linguaggi e fa nascere significati. Ma la sua essenza non sta né nei significati, né tantomeno nella forma dei significati , quanto nel fatto che questi nascano.

La performing art stupisce, sia  il pubblica sia chi la compie, perché rompe. Fa nascere cose, ovvero è per sua stessa natura primigenia, evocativa: aspira ad essere sempre un’origine e a rimettere in discussione tutto. Si ricomincia da capo ogni volta, si reinventa tutto, non ci si mette mai d’accordo sulle regole e non si riescono a mettere paletti fissi. Ed è proprio questo, detto forse un po’ semplicisticamente, il bello.

L’unico comune denominatore fra le varie forme della performance è l’aspirazione più o meno radicale ad arrivare all’essenza. Si pensi, andando a ritroso nei movimenti delle origini da cui la performing art proviene, al teatro di Grotowski. E qui forse sta anche il legame con la spiritualità e la ricerca della trascendenza che fa parte dei recenti interessi di Cross. Una ricerca verticale dunque, portata in modo più o meno consapevole dagli attori/danzatori.

E allora, quando la performing art diventa così intensa da andare alla radice, diventa spirituale. Del resto la ricerca teatrale , proprio come quella spirituale, deve essere per forza radicale, altrimenti non sarebbe tale.

E grazie alla ricerca come motore, la performing art disgrega. Dal di dentro. Rovista. Per sua stessa natura aspira ogni volta a mettere in discussione tutto, compreso il proprio linguaggio, sempre, meravigliosamente, fragile, sfibrato , traballante.

In una certa danza moderna invece, che poggia su basi più solide e che magari gioca con alcuni elementi del classico ma senza stravolgerlo, portando innovazioni estetiche anche di altissimo livello, la ricerca però si ferma, diciamo così, a uno stadio precedente. Non scava. Si muove in un senso orizzontale, lontano da quella discesa negli inferi della creazione che è della performance. All’artista che si esibisce nel balletto non è chiesto di mettersi in gioco. Entra ed esce intatto dall’esibizione, perché non toccato  nella propria interiorità.

E il pubblico si gode lo spettacolo senza essere chiamato a interpretarlo, o comunque in misura molto minore. Per questo motivo nella danza contemporanea la ricerca, che comunque esiste ed è parte integrante, si può definire di tipo orizzontale e si sviluppa sul piano aneddotico della coreografia, della scenografia, del costume e così via, oltre che naturalmente del gesto. Ma c’è un codice. E ci sono le variazioni attorno ad esso. C’è sempre un metro insomma sul quale confrontare le interpretazioni. Non si ridiscute tutto ogni volta. Si scrive e riscrive su un canovaccio, come hanno fatto i grandi maestri nella storia della pittura antica, si procede per gradi e per piccole impercettibili conquiste.

Non è però in questa sede il momento di fare l’apologia di una o dell’altra forma. Vorremmo invece semplicemente invitare il nostro pubblico a riflettere su certe categorie estetiche, per comprendere meglio, con occhi più chiari, gli spettacoli di domani e le sperimentazioni che verranno.

ALTRI ARTICOLI DAL BLOG