La danza contemporanea e la performing art. Due strade diverse che partono dal gesto

La danza contemporanea e la performing art . Due strade diverse che partono dal gesto


Si potrebbe dividere il mondo della danza contemporanea, o per meglio dire del gesto contemporaneo, in due grandi categorie, quella della danza intesa in senso tradizionale, seppure aperta a sperimentazioni di vario genere, e quello della performing art, che invece sorge da una rottura molto più profonda e porta a conseguenze più estreme. In questo articolo proveremo ad approfondire le divergenze fra i due mondi per cogliere l’essenza di questi due filoni.

A dire il vero forse si dovrebbe riflettere sul fatto che è soltanto il corpo del danzatore/performer, con la sua presenza fisica, a fare da punto di contatto. Perché per tutto il resto i modi dell’espressione variano e si allontanano, sia nelle ispirazioni iniziali sia nei risultati finali con differenze enormi  e ben radicate che non stanno tanto in superficie bensì alla base.

La contrapposizione fra performing art e danza contemporanea infatti avviene fondamentalmente sul piano della ricerca, e nelle direzioni che essa prende: ovvero verticale in un caso e orizzontale nell’altro.

Nella performance la ricerca è il fulcro ed è consustanziale all’avvenimento stesso costituendone sia l’origine sia la destinazione. Tutto questo ben al di là della forma finale restituita al pubblico. La ricerca è inscindibilmente legata all’esperienza del performer, tanto che questa diventa quasi sempre il terreno favorevole per una scoperta, la quale avendo la funzione di “ rompere”, che sia uno standard, una forma o un codice, porta con sé la magia delle epifanie. Insomma la ricerca nella performance crea linguaggi e fa nascere significati. Ma la sua essenza non sta né nei significati, né tantomeno nella forma dei significati , quanto nel fatto che questi nascano.

La performing art stupisce, sia  il pubblica sia chi la compie, perché rompe. Fa nascere cose, ovvero è per sua stessa natura primigenia, evocativa: aspira ad essere sempre un’origine e a rimettere in discussione tutto. Si ricomincia da capo ogni volta, si reinventa tutto, non ci si mette mai d’accordo sulle regole e non si riescono a mettere paletti fissi. Ed è proprio questo, detto forse un po’ semplicisticamente, il bello.

L’unico comune denominatore fra le varie forme della performance è l’aspirazione più o meno radicale ad arrivare all’essenza. Si pensi, andando a ritroso nei movimenti delle origini da cui la performing art proviene, al teatro di Grotowski. E qui forse sta anche il legame con la spiritualità e la ricerca della trascendenza che fa parte dei recenti interessi di Cross. Una ricerca verticale dunque, portata in modo più o meno consapevole dagli attori/danzatori.

E allora, quando la performing art diventa così intensa da andare alla radice, diventa spirituale. Del resto la ricerca teatrale , proprio come quella spirituale, deve essere per forza radicale, altrimenti non sarebbe tale.

E grazie alla ricerca come motore, la performing art disgrega. Dal di dentro. Rovista. Per sua stessa natura aspira ogni volta a mettere in discussione tutto, compreso il proprio linguaggio, sempre, meravigliosamente, fragile, sfibrato , traballante.

In una certa danza moderna invece, che poggia su basi più solide e che magari gioca con alcuni elementi del classico ma senza stravolgerlo, portando innovazioni estetiche anche di altissimo livello, la ricerca però si ferma, diciamo così, a uno stadio precedente. Non scava. Si muove in un senso orizzontale, lontano da quella discesa negli inferi della creazione che è della performance. All’artista che si esibisce nel balletto non è chiesto di mettersi in gioco. Entra ed esce intatto dall’esibizione, perché non toccato  nella propria interiorità.

E il pubblico si gode lo spettacolo senza essere chiamato a interpretarlo, o comunque in misura molto minore. Per questo motivo nella danza contemporanea la ricerca, che comunque esiste ed è parte integrante, si può definire di tipo orizzontale e si sviluppa sul piano aneddotico della coreografia, della scenografia, del costume e così via, oltre che naturalmente del gesto. Ma c’è un codice. E ci sono le variazioni attorno ad esso. C’è sempre un metro insomma sul quale confrontare le interpretazioni. Non si ridiscute tutto ogni volta. Si scrive e riscrive su un canovaccio, come hanno fatto i grandi maestri nella storia della pittura antica, si procede per gradi e per piccole impercettibili conquiste.

Non è però in questa sede il momento di fare l’apologia di una o dell’altra forma. Vorremmo invece semplicemente invitare il nostro pubblico a riflettere su certe categorie estetiche, per comprendere meglio, con occhi più chiari, gli spettacoli di domani e le sperimentazioni che verranno.

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La figura mitica di Draupadi e la danza dei tessuti

La figura mitica di Draupadi e la danza dei tessuti 


Le nuove direzioni di Cross sono quelle di trovare l’essenza e cercare i momenti  in cui la danza diventa pretesto, veicolo per qualcosa che assomiglia a un’elevazione interiore.

Così, alla ricerca di quella scintilla che connette la danza alla sacralità, il viaggio di Cross è diventato sia verticale sia orizzontale, muovendosi fra le forme della danza e verso le origini di questa. Abbiamo connesso Oriente e Occidente, e ci siamo rivolti allo studio dei poemi epici e dei testi antichi soprattutto di estrazione orientale, per trovare i nessi più significativi che unissero l’arte e la spiritualità. E seguendo questa traccia siamo andati a cercare figure cardine, che in qualche modo unissero questi due mondi.

Così ci siamo imbattuti in Draupadi. La sposa mitica dei cinque fratelli Pandava, danzata in tante forme ed emblema di resilienza, raccontata nel Mahabharata.

Ma andiamo con ordine.

Il Mahabharata è un  poema epico indiano che per la lunghezza smisurata pare rappresenti il più esteso poema mai scritto. La sua stesura risale ad un’epoca imprecisata persa nei tempi, all’epoca delle invasioni degli Ari. Tale testo, oltre a rappresentare un punto di riferimento imprescindibile per la cultura indiana e induista, grazie alla rivisitazione di Peter Brook del 1975 ha condizionato fortemente il teatro contemporaneo e ha rappresentato un ponte non soltanto fra il mondo dell’arte e quello della spiritualità, ma anche fra Oriente e Occidente. 

Ovviamente qui a noi interessa il suo legame con la contemporaneità e le forme d’arte che sono sgorgate dalla sua rivisitazione. La rilettura di Brook infatti prima di tutto ha posto l’attenzione sulla contaminazione avvenuta fra un testo antico, cardine della mitologia indiana, e l’interpretazione di questo attraverso un occhio occidentale. Già qui infatti, in questa sovrapposizione culturale, è avvenuto il primo incrocio interessante, la prima somma di sensibilità diverse, come del resto spesso accade nella post modernità dove gli strati di un’opera si sovrappongono e il concetto stesso di sovrascritture diventa regola.

Inevitabilmente l’opera nelle mani di Brook e del suo sceneggiatore Jean-Claude Carrière, peraltro già sceneggiatore di Luis Bunuel, è divenuta una riflessione universale su valori appartenenti alla civiltà umana quali desideri, intrighi, giochi di potere e di politica. E così il Mahabharata è diventato un testo per riflettere sul presente, oltre a un campo di applicazione formidabile dove Brook ha potuto mettere in campo in maniera mai così assoluta il suo lavoro sugli attori che, provenendo dalle ricerche grotowskyane, implicava necessariamente il lavoro sulla persona , entrando nel campo dell’anima e delle intimità dell’attore per “rovistarla”.

A questo riguardo Mallika Sarabhai, l’unica indiana del cast, e l’unica come lei stessa dichiarò a conoscere approfonditamente lo sterminato testo del Mahabharata, ha rilasciato dichiarazioni emblematiche, in cui racconta la sua “lotta” con Brook su ogni passaggio, in un coinvolgimento spesso doloroso, ma profondamente arricchente.

Sono state le influenze del teatro di Jerzy Grotowski, ma anche delle teorie di Gurdjieff , a influenzare la modalità “invasiva” con cui Brook si rivolgeva agli attori, chiedendo esplicitamente che la loro esperienza teatrale divenisse un’esperienza umana, intima, sconvolgente, e soprattutto trasformativa, e successivamente chiedendo che questa esperienza umana si riversasse sulla scena, in qualche modo per essere donata.

Come un viaggio da dentro a fuori, quel tipo di viaggio che Cross cerca e che abbiamo visto potersi esprimere nella danza quando diventa collegamento con la trascendenza. Un lavoro che fa sì che il gesto sgorghi da una ricerca interiore che sta a monte, e che fa della restituzione sul palcoscenico l’esito ultimo di un viaggio molto più complesso.

E’ quindi sulla figura di Draupadi, o meglio sul nesso fra questo personaggio e l’attrice Mallika Sarabhai, che vogliamo soffermarci, in particolare sul suo rappresentare altro in un rimando di significati: Draupadi come baluardo di resilienza, di coraggio e di emancipazione, inscindibilmente legata alle attività che Mallika Sarabhai ha sempre svolto nella vita privata battendosi per i diritti delle donne e facendosi portavoce in India di un modo di pensare e di sentire sfacciatamente anticonformista. Ma soprattutto  sul legame potente fra attore e personaggio che fa sgorgare un’arte sacra, perché vera, sentita, potente, e soprattutto profondamente umana. E qui è davvero interessante osservare come Brook attraverso il suo lavoro sull’ “uomo attore” abbia preservato la sacralità facendola passare per altre vie, quella sacralità che era già parte integrante del testo del Mahbharata ma che con lui diventa nuova, riscritta, e quindi contemporanea. Come se il testo sceneggiato da Carriére e portato in scena dagli attori, o per meglio dire incarnato dagli attori, acquisisse una seconda sacralità, espressa proprio attraverso la loro esperienza umana. Quel testo che gli attori , per rappresentarlo secondo il volere gurdjieffiano di Brook, hanno messo in gioco se stessi, rendendosi disposti a perdersi e a “farsi battere come spighe” per lasciare che il maestro/regista tirasse fuori da loro l’essenza.

Questa è una modalità che, se non sempre consente di mettere in scena il sacro, quantomeno implica inevitabilmente il cercarlo. Ed è una modalità che poi , in senso assoluto, ben oltre il Mahbharata , lega il teatro al sacro nell’epoca contemporanea. La stessa modalità che fa si che la danza moderna affondi le sue radici nell’interiorità del danzatore, in una ricerca interiore volta ad attivare qualcosa, o nei casi più elevati volta a “collegare” il danzatore a qualcosa.

Sempre a proposito di danza del resto c’è un momento, un attimo,  nella trasposizione cinematografica del Mahabarata (diretta dallo stesso Brook e realizzata nel 1989), che poi in realtà è anche un momento centrale dell’intera storia raccontata nel poema, in cui Dushasana cerca di spogliare Draupadi, umiliandola pubblicamente. Essendo stata trascinata alla corte dei malvagi Kaurava, Dushasana le si avvicina e prendendole un lembo della veste prova tirarglielo, ma Krishna per fermare quell’umiliazione interviene e allunga a dismisura il vestito di Draupadi, tanto che Dushasana continua a tirare all’infinito fino a rimanere sepolto dallo stesso tessuto.

La storia di Draupadi, e in particolare questo momento, è stata rappresentata in svariati spettacoli di danza, di tutte le tradizioni indiane, dal Bharatanatyam, al Kathakali, al Kuchipudi,  ma questo passaggio nel film di Brook incanta lo spettatore, per la commistione di lavori che si sovrappongono ,  per gli occhi infuocati e splendidi di lei, per lo scandalo che trasferisce nei suoi lamenti che è lo scandalo di tutte le donne umiliate, per la verità che traspare, per il gioco coreografico dei tessuti, per l’accenno di danza all’interno di un momento drammatico inserito dal regista con una scorrevolezza magistrale.

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Il teatro capovolto. Riflessioni su Jerzy Grotowski, la danza e l'arte contemporanea

Il teatro capovolto. Riflessioni su Jerzy Grotowski e la danza


Ci siamo soffermati a lungo in articoli precedenti sulle assonanze fra il campo d’azione del ricercatore spirituale e quello dell’artista contemporaneo, che sia egli un performer o un danzatore. È dal concetto di “ricerca” che siamo partiti come un punto di contatto fra due mondi. E dalla scintilla che scaturisce da questo contatto vogliamo prendere l’ispirazione per pensare un nuovo mondo di intendere la danza, e con essa il mondo della ricerca.

Per porre fondamenta solide però occorre partire da una riflessione basilare: ovvero che non soltanto il fare artistico ma anche per larga parte la spiritualità è ricerca, ovvero un cammino e non soltanto una meta. Questo passaggio implica il fatto per esempio che chi pratica la meditazione trovi il gusto per il viaggio già durante il viaggio stesso, e fa’ si che il campo del ricercatore spirituale , proprio come quello dell’artista, possa essere vissuto come un’avventura.

Questo aspetto dinamico che coinvolge l’esperienza di chi ricerca le proprie verità è di fondamentale importanza, per trovare in quel tipo di viaggio le assonanze che stiamo andando esplorando fra la meditazione e il teatro di ricerca o la Performing Art. In realtà non ci interessa tanto dimostrare come i due viaggi siano simili, quanto piuttosto come l’uno attinga dalle scoperte dell’altro, in un rapporto quasi di scatole cinesi o di interscambio. Come se arte e spiritualità fossero due correnti che si intersecano e a un certo livello si alimentano.

Per questo siamo andati a cercare a ritroso, questa volta nella storia del teatro, chi già aveva rovesciato l’ordine dei processi, relegando più importanza al momento delle prove, ovvero della ricerca, piuttosto che a quello dello spettacolo. E questa figura senza ombra di dubbio l’abbiamo trovata in Jerzy Grotowski, il grande regista di origine polacca, che attraverso le sue sperimentazioni ha esplorato proprio il concetto di produzione dell’espressione, in una sorta di viaggio controcorrente verso una fonte primaria. Del resto lo dichiarò lui stesso, in un’intervista rilasciata a Marianne Ahrne nel 1992, che a un certo punto, quando si trovò a scegliere in quale direzione andare, sentì chiaramente che invece del regista teatrale avrebbe potuto fare lo psichiatra o lo studioso di Yoga e Induismo, ma sempre mantenendo i medesimi obiettivi. Perché era la ricerca il fulcro, non il risultato.

“Lo spettacolo è sempre stato meno importante del lavoro nelle prove. Lo spettacolo doveva essere impeccabile, ma tornavo sempre verso le prove anche dopo la prima”, spiega nel documentario. Come se tutta la sua ricerca sul concetto di azione scenica e di smembramento dell’attore trovasse la sua ragione di esistere in se stessa, in quello che probabilmente è stata una dissezione chirurgica degli organi stessi che compongono lo spettacolo teatrale.

Da qui anche la danza. E ci spieghiamo meglio. Uno degli aspetti affascinanti della ricerca artistica, anche prima di Grotowsky, già dagli anni Sessanta, è stato una sorta di debordare degli ambiti e dei linguaggi, in una commistione postmoderna in cui si perdevano le etichette. Si smarrivano i confini. Danza, teatro, Performing Art diventano un unico grande contenitore adatto ad ospitare la sperimentazione in qualunque forma, secondo un principio volto a destrutturare e a mischiare le carte. Fino a capovolgere il senso ordinario di quegli stessi linguaggi. Si veda a tal proposito l’intervista già citata che postiamo in coda a questo articolo.

Va detto del resto che nel Novecento, come sempre è stato nella Storia, prima ancora di quel tipo di teatro sperimentale, furono le arti figurative a precorrere i tempi. E probabilmente l’artista che in questa prospettiva più di tutti ha rotto gli argini del senso logico nell’opera è stato Marcel Duchamp (anche se in lui non erano presenti vere e proprie scintille di ricerca interiore, quanto piuttosto vigeva un gusto della provocazione). Fu lui il primo a dire “vale tutto“, rovesciando il famoso orinatoio e donandogli un secondo significato. E se da quel bivio creato da Duchamp alcuni presero a giocare con la forma con esiti anche altissimi, come nel caso di Picasso, altri approfittarono di quel varco aperto per provare ad andare alle origini dell’opera nel senso profondo, approfittando del fatto che dopo Duchamp l’opera si presentava disgregata e quindi più facilmente approfondibile -sezionabile- nella sua essenza.  Come dice David Linch, che peraltro è un grande praticante di meditazione Vipassana, “la pesca grossa si fa in profondità”. E infatti è proprio questo il contatto fra i due mondi che andiamo cercando.

Una riflessione a parte andrebbe fatta su come tale destrutturazione delle regole dell’opera, e poi dello spettacolo, che è stata affascinante da seguire per svariati decenni, e ha portato a scoperte senza dubbio interessanti, ci abbia lasciato ai giorni nostri un senso di smarrimento, dove il gusto di distruggere le forme ha fatto perdere potenza e quasi dignità all’opera d’arte, che letteralmente traballa se non nei casi peggiori si potrebbe dire che non poggia più su niente. Così, guardando tanta arte contemporanea oggi, l’artista appare come chi cerca di appendere le proprie opere a pareti di sabbia, che non tengono più. Ci domandiamo allora se non possa essere la spiritualità il nuovo collante capace di ridare una direzione a queste ricerche.

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Portare la danza in luoghi inattesi

Portare la danza in luoghi inattesi


Trasformare gli spazi attraverso il movimento. Giocare coi luoghi e non più soltanto col gesto. Sovrapporre gli strati, cercare luoghi in grado di amplificare i gesti della danza per contrasto, cercare l’estasi nelle chiese, nei templi, nei luoghi sciamanici persino nei boschi , luoghi che veicolano spiritualità spontanee, dirette, non mediate. Intendere la danza come veicolo di trascendenza, come già la intendevano i Dervisci, ma allargando questo concetto di ricerca al movimento inteso in senso più ampio, ovvero al movimento tutto.
Così la danza diventa ricercatrice di spazi, e attraverso il gesto del danzatore si cerca in qualche modo di valorizzare lo spazio letteralmente illuminandolo.
Portare la danza, e più in generale la performance, nei luoghi sacri è una sfida audace con la quale in passato già alcuni coreografi si sono cimentati. L’arte della danza moderna, con la sua capacità di comunicare emozioni e narrazioni attraverso il movimento del corpo, sta attualmente esplorando anche queste frontiere artistiche. In questo senso citiamo volentieri con il video postato in fondo il lavoro recente della Compagnia Artemis Danza che nel 2022 ha registrato nella Chiesa di Sant’Apollinare in Classe la sua coreografia sull’Inferno di Dante. Del resto, essendo la ricerca sul corpo e il movimento fondamentalmente una ricerca interiore, il passo verso l’espressione della spiritualità del danzatore è breve.
E uno dei suoi passi più audaci è rappresentato proprio dal movimento verso luoghi sacri come chiese, templi e santuari, trasformando questi spazi in palcoscenici per l’espressione coreografica, soprattutto quando tale espressione ha aneliti trascendenti.  Del resto quest’idea di “rompere”, ovvero di danzare l’inatteso, era già di Isadora Duncan, la pioniera del movimento libero e audace che aveva iniziato a uscire dai teatri e liberarsi dalle regole.
Ma chi sono stati poi i pionieri di questa avventura verso nuovi luoghi? Sicuramente Martha Graham, Pina Bausch e Akram Khan sono stati tra i visionari della danza moderna che hanno condotto questo viaggio oltre i confini convenzionali, sfidando le tradizioni e cercando di stabilire connessioni inaspettate, appunto tra movimento e spiritualità.
 Quando la danza moderna si sposa con l’atmosfera e l’architettura dei luoghi sacri, si crea un’esperienza transcendentale sia per il pubblico che per gli artisti stessi e le emozioni evocate dal movimento del corpo, unitamente alla maestosità dei luoghi, spesso conducono a un’esperienza spirituale profondamente arricchente anche per il pubblico. Come una triangolazione dorata, dove si crea un vero e proprio dialogo a tre voci, in cui il luogo assurge a una funzione fondamentale di sfondo e quindi in termini di capacità di imprimere e condizionare. È questo dialogo tra il movimento corporeo e l’ambientazione sacra che offre un nuovo modo di percepire e comprendere sia l’arte che la spiritualità, di chiedere al pubblico non soltanto un ascolto o una visione, ma un collegamento. Il movimento si arricchisce, trovando nuovi stimoli verso “l’interno”, andando a pescare giù, nel profondo, e i luoghi sacri che lo ospitano vengono messi alla prova dai grandi coreografi saggiando il punto di rottura fino al quale il sacro resta tale senza smarrirsi.  Come dire: fino a che punto si può osare danzando in una chiesa senza far perdere al luogo il suo potenziale intrinseco di spiritualità?
Sono davvero scommesse interessanti queste, che esplorano non solo i confini estetici di certe messe in scena ma misurano la capacità di ampliarsi di alcune categorie come appunto quella del sacro.
Così, questo incontro fra linguaggi contiene numerosissime implicazioni. E la presenza della danza moderna in luoghi sacri può ridefinirne lo spazio fisico e la percezione culturale, trasformandoli in scenari di espressione artistica e di contemplazione spirituale per il pubblico. Questa convergenza solleva anche questioni etiche e culturali importanti: il rispetto delle tradizioni e delle credenze è fondamentale quando si portano forme d’arte non convenzionali in contesti sacri. Ma a nostro avviso non esiste sacro, inteso nella sua accezione profonda e potente, che debba aver paura di smarrirsi.
In conclusione, l’integrazione della danza moderna in luoghi sacri rappresenta un’interessante intersezione tra arte e spiritualità. Questa pratica apre nuove prospettive estetiche e intellettuali, fungendo da ponte tra la creatività umana e la ricerca di significato nell’esperienza umana.

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La danza dal di dentro. Riflessioni ispirate all'opera di Mark Rothko

La danza dal di dentro. Riflessioni ispirate all'opera di Mark Rothko


Fondazione Luois Vuitton

Di recente abbiamo potuto visitare la splendida mostra dedicata a Mark Rothko presso la Fondazione Louis Vuitton a Parigi e camminando fra le grandi tele dell’artista americano  ci siamo concessi alcune divagazioni su quello che potrebbe essere la danza e forse non è ancora.

Ma prima di parlare di danza, ci teniamo a sottolineare come Mark Rothko sia un pittore meravigliosamente americano, desolato e squadrato, soprattutto nei suoi primi lavori, quelli meno famosi, che per certi paesaggi  e stati d’animo  ricordano Edward Hopper. Quei primi lavori che sono i mattoni di una ricerca che lo porterà poi a quelle grandi tele che sono fra gli esiti più originali nell’ambito dello spazialismo.

L’opera di Rothko vorrebbe essere per noi l’ esempio di come l’arte non solo si possa rivolgere al di dentro e pescarvi ispirazioni, ma possa ambire a dipingere quello stesso “di dentro” o, nei casi che ci riguardano, a danzarlo. Ma procediamo un passo alla volta.

Nella corrente dell’espressionismo astratto definita spazialismo la tela occupa un ruolo fondamentale proprio in quanto spazio da riempire . E il fatto di riempire questo spazio, e soprattutto la modalità con cui ci si confronta con questo problema, è stata da sempre la cifra degli spazialisti . La loro  ricerca figurativa infatti va’ di pari passo con la propria ricerca interiore, o meglio con la ricerca di uno SPAZIO interiore, di un luogo, e quindi, conseguentemente, con la raffigurazione di questo spazio. Non si dipinge più esattamente l’anima, insomma, ma si prova a prenderne le misure. Non l’essenza quindi, ma l’ampiezza, la larghezza e la profondità.

Allo stesso modo Rothko, collocandosi in questa tradizione attinge alle proprie risorse interiori per arrivare a raffigurare spazi. E questo movimento dal dentro al fuori, significa esplorarsi dall’interno e portare in superficie le proprie scoperte.

Il movimento è quindi sfacciatamente verticale, oltre che dal dentro al fuori, quasi dal basso all’alto e sicuramente dall’interno all’esterno . Come detto, tale ricerca si colloca nell’ottica di una linea artistica più ampia che ha riguardato diversi artisti e che nella storia dell’arte contemporanea si è occupata della rappresentazione della profondità. In particolare il solco più ampio è quello dell’espressionismo astratto, che possiamo descrivere non solo come un tipo di raffigurazione pittorica, ma come un’avventura entusiasmante della ricerca umana sul linguaggio.

In questo senso Rothko trova i propri predecessori in due grandi maestri quali Jackson Pollock e Lucio Fontana, che con le proprie opere hanno riflettuto in modo nuovo sul concetto di profondità. Quello che infatti era stato un problema esclusivamente ottico o comunque figurativo , dare l’illusione di andare “dentro” al quadro, con loro si è trasformato in un problema interiore. La rappresentazione della profondità nel quadro è divenuto il problema di una raffigurazione spirituale: di una quinta dimensione (l’interiorità) che coincide con la terza (la profondità di campo). E se in Pollock l’astrazione era diventata un magma che risucchiava tutto, compreso chi guardava i dipinti, con Fontana si era arrivati al gesto limite di bucare la tela . Fino ad arrivare a Rothko, in cui questa ricerca diventa un andare nel fondo degli abissi per riportare a galla qualcosa, e restituire così al pubblico uno spazio trovato.

Chissà, ci domandiamo, se allo stesso modo possa esistere una danza in grado di andare in fondo , di attingere alle origini del gesto e portare fuori, di pescare dagli abissi e dare alla luce. In un gesto che prima ancora di diventare movimento sia in grado di trovare la propria spinta in un luogo interiore , in un movimento antecedente, che lo precede, un movimento sublime e invisibile agli occhi. Un’immobilità intesa come una stanza nel profondo da raggiungere, da cui poi tutto sgorga, se lo si vuole . Come certi arti marziali che insistono sul fatto che il movimento nasca dall’ immobilità.

C’è un attimo, prima di decidere di muoversi. È lì che occorre saper stare.

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La danza circolare degli Acta Johannis

La danza circolare degli Acta Johannis


Le ricerche di Cross vogliono avere la forza di spaziare fra i luoghi e i linguaggi per trovare l’essenza , quella scintilla di trascendenza nella danza , di collegamento con l’oltre, che nasconde il movimento quando si innalza.

Allo stesso modo di come certe discipline orientali , come per esempio lo Yoga, che in sanscrito significa “unione”,  si ergono a farsi collegamento fra terra e cielo, così la danza a nostro avviso, nei momenti più intensi, diventa un ponte. Magari a prescindere dalle intenzionalità dell’artista.  L’arte come l’apertura di un varco.

A volte accade semplicemente, senza intenzione, quando la danza in alcuni momenti prende un colore più vivido, vicino a quello che i ballerini di flamenco e i toreri chiamo duende: una forza inspiegabile nascosta nel movimento, che si accende. L’incanto, che, quando si fa’ davvero vivido, diventa collegamento con l’eterno e, quindi, perfezione. Come se la danza prima di arrivare a quell’istante  fosse stata un insieme di tentativi per trovare quell’unica nota perfetta. Ogni tanto, accade. Allo stesso identico modo con cui a volte nello Yoga, con la posizione raggiunta in modo completo e armonioso da parte del praticante , l’interiorità risuona col corpo, entrando in armonia con esso,  tanto che alcuni insegnanti di questa disciplina,   a proposito dell’esecuzione corretta delle posizioni, dette Asana, il cui nome significa “posizione comoda”, parlano proprio di “trovare la nota”.

Le ricerche contemporanee sono piene di questi episodi. Intendiamo qui per ricerche, quelle ricerche artistiche in seno alla danza  occidentale, la danza vicina alla Performing Art, senza regole accademiche, intesa come movimento che libera, che fa’ volare, che apre le porte all’io autentico oltre il logos. Oltre l’ego. Ovvero la danza quando si  innalza, quando fa’ alzare la testa e le braccia verso il cielo e diventa una preghiera. Magari senza esplicitamente dichiarasi tale. Quando il gesto che, da normale, anela a diventare trascendente.

Così, la redazione di Cross,  sulla scìa dell’entusiasmo di approfondire questi aspetti, è andata a cercare  i momenti della Storia in cui la danza si è letteralmente mischiata al Sacro, in cui le preghiere, invece di essere state dette, sono state danzate. Momenti rammentati nelle Scritture ufficiali  e momenti in cui la letteratura, più o meno accertata, come nel caso che tratteremo fra poco, racconta addirittura di Maestri spirituali che hanno danzato. Argomento affascinantissimo.

Abbiamo spaziato fra le tradizioni. A cominciare dall’induismo, più vicino a queste espressioni.  In vari testi come i Bhagavata Purana o la Gita Govinda, Krishna, l’Avatar del Dio Supremo, è descritto come figura danzante, che incarna quella che si potrebbe chiamare una sorta di  gioia di esistere. Quella gioia pura, che per certi aspetti nella cultura occidentale è stata ripresa dai passi liberi di Isadora Duncan, quando danzare significava semplicemente essere, in una sorta di spontaneità che come hanno detto tanti Maestri spirituali bisognerebbe saper imparare dai bambini. E che Krishna, in quel Dio ragazzo raccontato dalle Scritture,  incarna.

Ma siamo stati attratti anche da un altro testo storico davvero particolare, appartenente alla nostra tradizione, alla storia non ufficiale del Cristianesimo, bandito dal Concilio di Nicea. Si tratta degli Acta Johannis scritti intorno al 180 d.c. attribuiti a un discepolo di Giovanni, tale Leucius Charinus, che oltre a raccontare viaggi e miracoli di san Giovanni Evangelista narra un episodio accaduto in seguito all’ultima Cena in cui Gesù avrebbe chiesto ai discepoli di danzare in cerchio come atto di preghiera, tenendosi per mano e facendo movimenti in rotazione, con lui al centro che danzava e pregava, e loro che ripetevano “Amen”. L’episodio è stato  ricordato nei secoli dalla letteratura come la “Danza circolare” di Gesù. Ma come detto il testo venne bandito dalla religione ufficiale e quindi dal Concilio per un esagerato legame del Maestro col corpo che , all’epoca in cui fu preso in considerazione, contrastava troppo con l’interpretazione degli insegnamenti  che si volevano  far passare. Per un approfondimento su questo tema si rimanda a A note on the dance of Jesus in the Art of John di W.C. Van Unnik.

Per quanto ci riguarda, senza minimamente volerci addentrare nell’analisi circa l’attendibilità dell’episodio, ma prendendo il racconto da un punto di vista strettamente suggestivo e letterario, intendendolo se vogliamo come “possibilità” di preghiera, l’avvenimento ci colpisce molto. Innanzitutto perché c’è qualcosa di infantile in questo modo di intendere la danza, pieno di quella spontaneità che negli insegnamenti cristiani, poi, sono passati anche in certe parole di san Francesco. Danzare come respirare, in un gesto purissimo ma pieno di sacralità, come viene mostrato nel film Francesco Giullare di Dio di Rossellini, in cui San Francesco chiede ai suoi discepoli di danzare, di girare intorno su stessi fino a perdere  l’equilibrio,  proprio come bambini, che si lasciano andare prima di portare al mondo la parola del Maestro, e cadono a terra, abbandonandosi. In un’estasi colma di felicità.

E poi in questo racconto degli Acta Johannis ancora una volta c’è la gioia, che è la cosa che ci colpisce di più, che ci interessa di più, quella gioia di esistere che si diceva prima, spontanea, e connaturata al gesto al di là delle regole, che la danza porta con se’, nella sua natura,  che la fa’ passare come la possibilità di una preghiera cantata , libera dagli schemi. In modo tale che “essere” , in certi casi, come abbiamo visto, diventa molto simile a danzare.

matisse danza

Così, per concludere con le suggestioni di questo articolo che si è permesso più degli altri di spaziare fra i secoli e i linguaggi, ci lanciamo in un ultimo ardito collegamento che coinvolge la pittura, sempre con l’intenzione di trasmettere il medesimo sentimento. E rimandiamo  al capolavoro di Henri Matisse che nella sua Danza dipinta in due versioni fra il 1909 e il 1910 riprende il tono vorticoso, comunitario, liberatorio, festoso e catartico che la danza , quando anela ad essere spirituale, dovrebbe sempre avere.

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L'arte contemporanea nelle Chiese. Note sulla costruzione di nuovi rituali

L'arte nelle chiese. Note sulla costruzione di un tempio


Le chiese, luoghi intrisi di sacralità e tradizione, rappresentano uno spazio di profondo significato culturale e spirituale. Tuttavia, in un’epoca in cui l’arte contemporanea si evolve e abbraccia molteplici forme e media, sorgono riflessioni intriganti sulla possibilità di integrare installazioni di sound art, digital art e performing art all’interno di questi santuari tradizionali. Magari lavorando sui due piani, quello dell’immobilità di uno sfondo fortemente intriso di sacro, con la fragilità e il fascino del piano più mobile della performance.

Immaginate di varcare la soglia di una chiesa e non essere accolti dal suono del coro o dall’odore dell’incenso, ma da un’installazione di sound art che cattura l’essenza stessa della spiritualità attraverso una sinfonia di suoni e rumori che trasportano l’anima in un viaggio senza tempo.

La digital art potrebbe dipingere storie sacre attraverso proiezioni immersive sulle pareti, rendendo visibili al pubblico interpretazioni uniche delle tradizioni spirituali che hanno resistito al passare dei secoli.

E cosa dire della performing art? Un’interpretazione teatrale, una danza o una performance che riflettono la sacralità del luogo, mettendo in scena rituali moderni, potrebbero trasformare la chiesa in un palcoscenico dove gli artisti contemporanei diventano custodi della ritualità.

Il concetto stesso di cerimonia e rituale potrebbe essere rivisto in questa cornice. Gli artisti contemporanei, come sacerdoti dell’arte, potrebbero dirigere questa nuova liturgia, orchestrando tempi e movimenti che trasformano il tempo quotidiano in un’esperienza trascendentale.

La ripetizione, pilastro dei rituali antichi, potrebbe essere esplorata attraverso stereotipi reinventati, consentendo a coloro che partecipano a questi “riti artistici” di trovare una familiarità che si intreccia con la modernità, creando un ponte tra il sacro e l’innovazione artistica.

Questa nuova era potrebbe portare a una riconsiderazione del concetto stesso di chiesa, trasformandola in un luogo di connessione tra passato e presente, tra spiritualità e creatività umana. L’arte contemporanea potrebbe diventare il linguaggio universale che unisce le generazioni, riscoprendo il senso profondo di cerimonia e rituale in forme artistiche inaspettate.

Così, nelle chiese di oggi, potrebbe nascere una nuova sinfonia di espressione umana, in cui il tempo della ritualità si fonde con il tempo dell’arte, plasmando un’esperienza che eleva l’anima al di là delle convenzioni temporali e culturali, aprendo le porte a un nuovo mondo di significato e bellezza.

Queste nuove espressioni artistiche non cercano di sostituire o sovrastare il significato sacro delle chiese, ma piuttosto di arricchirlo, offrendo nuove strade di interpretazione e di connessione con il divino. L’installazione di opere d’arte contemporanea nelle chiese diventa un invito alla contemplazione, una chiamata alla riflessione che stimola sensazioni e riflessioni profonde.

Questa integrazione rappresenta anche un’opportunità per i fedeli e i visitatori di sperimentare la spiritualità in forme non convenzionali. La fusione tra il sacro e il contemporaneo crea uno spazio per un dialogo aperto e inclusivo, in cui le persone di diverse prospettive possono trovare un punto di incontro per esplorare temi universali.

Inoltre, queste nuove prospettive sull’arte nelle chiese favoriscono la democratizzazione dell’arte stessa. Le chiese, tradizionalmente accessibili a tutti, diventano dei veri e propri musei aperti dove l’arte contemporanea può essere apprezzata da una vasta gamma di persone, rendendo l’arte stessa più inclusiva e accessibile.

Questa integrazione rappresenta anche un’opportunità per i fedeli e i visitatori di sperimentare la spiritualità in forme non convenzionali. Artisti come Bill Viola, con le sue installazioni video immersive, trasportano il pubblico in viaggi emotivi e spirituali, sfidando i confini del tempo e dello spazio attraverso un’esperienza artistica unica.

La digital art potrebbe dipingere storie sacre attraverso proiezioni immersive sulle pareti, rendendo visibili al pubblico interpretazioni uniche delle tradizioni spirituali che hanno resistito al passare dei secoli. Artisti come Janet Cardiff e George Bures Miller, con le loro installazioni sonore coinvolgenti, trasformano gli ambienti, compresi quelli sacri, in luoghi di narrazione multisensoriale, offrendo un nuovo modo di esplorare la spiritualità attraverso il suono e l’immaginazione.

Oltre all’opera di Viola, abbiamo scelto di proporre come copertina un interno di Dan Flavin a Milano,che dal 1997 definisce le tre parti principali della chiesa, navata, transetto e abside. L’istallazione da all’ambiente un’atmosfera suggestiva che richiama i tre momenti chiave della giornata, alba, giorno e tramonto. E la cappella di Sol Lewitt nelle Langhe che rappresenta un esperimento ardito di forma e soprattutto di colore, innestato su un paesaggio docile ma sicuramente classico come quello delle colline piemontesi. In entrambi questi contesti il luogo sacro non si presta tanto ad ospitare l’arte contemporanea quanto a diventare esso stesso oggetto di arte nuova.

Del resto, questa convergenza fra arte contemporanea e Sacro potrebbe rinnovare il significato delle chiese come luoghi di connessione umana e spirituale. Trasformare questi spazi in contesti artistici contemporanei può rendere le chiese non solo luoghi di culto, ma anche centri di ispirazione, di dialogo culturale e di esplorazione dell’interconnessione tra arte, spiritualità e umanità.

In definitiva, l’integrazione dell’arte contemporanea nelle chiese offre una visione nuova e promettente dell’esperienza umana e spirituale, che apre porte a una comprensione più ampia e inclusiva del mondo che ci circonda.

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Ritrovare l'essenza. Un Viaggio fra Oriente e Occidente

Ritrovare l'essenza. Un viaggio dell'Arte tra Oriente e Occidente


L’arte contemporanea occidentale, con le sue radici profonde e la sensibilità orientale, apre una porta verso un dialogo nuovo e stimolante, come se due mondi, Oriente e Occidente, stessero finalmente intrecciando le proprie storie.

In questa era senza precedenti, l’uomo contemporaneo, soprattutto quello occidentale, si trova ad un bivio. Sulla cima di un grattacielo, egli contempla il mondo, riflette sul suo passato e soppesa le strade future. È come se avesse il potere di acquisire, o persino distruggere, tutto ciò che vede. Eppure, nonostante la prospettiva del baratro, avverte la libertà di un cambio repentino, una svolta verso la guarigione.

Non è ancora troppo tardi. Le lezioni del passato, le lotte e i sacrifici, ci hanno regalato una preziosa opportunità. Da una parte, si estende l’insegnamento dei grandi maestri, la “via interiore”; dall’altra, il progresso e le conquiste occidentali, che hanno permesso di raggiungere l’attuale altura.  Per fare un esempio, Ai Weiwei, attraverso il suo impegno politico e sociale nell’arte, ha fuso la tradizione artistica cinese con la modernità occidentale, dando vita a opere di grande impatto emotivo e concettuale. Inoltre, Olafur Eliasson ha creato opere che esplorano la percezione sensoriale e l’interazione umana con l’ambiente, combinando elementi occidentali e orientali.

Oggi, possiamo studiare qualsiasi cosa, accedere a qualsiasi tradizione. Possiamo immergerci nel buddismo o nella meditazione Zen tramite un semplice tablet. Tuttavia, non possiamo permetterci di sbagliare.

L’arte contemporanea occidentale, digitale, tecnologica e performante, emancipata dalle catene delle tradizioni religiose, si erge come un percorso entusiasmante offerto dall’Occidente. È un linguaggio unico, ricco della storia occidentale e dell’evoluzione dell’espressione umana. Quest’arte può oggi integrare gli insegnamenti orientali sulla meditazione, l’equilibrio e la ricerca del vuoto, in un abbraccio fecondo.

Il punto di incontro tra questi due emisferi può avvenire nell’arte contemporanea, in quella ricerca incessante condotta dagli artisti moderni che dovrebbero indicare la strada, illuminando nuovi sentieri espressivi per l’umanità. La fusione tra Oriente e Occidente, trasformata in una nuova sintesi, può essere la via.

L’arte, con il suo linguaggio in evoluzione, distaccatosi dalle tradizioni religiose, si è quasi trasformata in una via alternativa di ricerca. È come se, in un certo senso, l’occidentale avesse pregato attraverso di essa.

Potremmo cadere nella tentazione di vedere l’Occidente come il volto materialista della civiltà contemporanea e nell’Oriente come il baluardo dell’approfondimento interiore. Tuttavia, sarebbe un errore circoscrivere le conquiste occidentali soltanto al progresso tecnologico.

In definitiva, l’arte contemporanea, con il suo linguaggio universale e mutevole, può diventare il punto d’incontro dove la diversità culturale si trasforma in un’opportunità per l’arricchimento reciproco. Attraverso il dialogo tra Oriente e Occidente, l’arte non solo esplora nuove frontiere espressive ma ci invita anche a riflettere sulla nostra identità, sulla nostra interconnessione e sulle possibilità di un mondo più inclusivo e armonioso.

Ogni opera d’arte diventa un riflesso di questa fusione, una testimonianza tangibile dell’incessante dialogo tra culture. Siamo chiamati a celebrare questa diversità, ad abbracciare le molteplici influenze e a coltivare una visione che abbracci sia la ricchezza del passato che le promesse del futuro.

In questo viaggio verso una sintesi culturale, l’arte contemporanea non solo testimonia la nostra storia condivisa, ma incarna anche la speranza di un mondo dove le differenze sono celebrative e la diversità è la vera essenza dell’umanità.

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Lo spazio bianco della meditazione

Lo spazio bianco della meditazione


Oggi le ricerche di Cross sono arrivate a un punto di svolta. Dopo aver esplorato per anni le forme dell’arte contemporanea legate al movimento e alla performance, e dopo aver cercato nei loro lavori l’essenza e il motore che le animava, la riflessione che portiamo avanti ora è più legata alla spiritualità e in particolare a indagare come la scintilla creativa degli artisti vada spesso a braccetto con la ricerca interiore di questi, che  nei casi più interessanti diventa ricerca di un vero e proprio collegamento con l’oltre. Creare diventa pregare e gli artisti in questi frangenti manifestano un’aspirazione a farsi ponte, collegamento fra cielo e terra come insegna lo Yoga, attraverso l’arte. Ma prima come sempre c’è la ricerca, che spesso, quando si parla di spiritualità, funziona per sottrazione, attraverso un togliere, invece che un aggiungere, come del resto insegnano tante meditazioni, dove si fa’ un lavoro di vero e proprio spogliamento per raggiungere l’essenza. Perché “essenza”, nell’arte come nella spiritualità, è la nostra parola chiave.

Trovare l’essenza. Nell’arte che impara dalla meditazione. Togliere gli strati alla cipolla, per usare una metafora magari un po’ banale, per vedere cosa resta.

Ci sono stati tanti momenti  nella storia del linguaggio che hanno rappresentato questo movimento del togliere, del sottrarre, per trovare l’anima. In questo caso abbiamo scelto uno snodo particolarmente significativo: un’opera dell’espressionismo astratto  di Barnett Newman esposta al Centre Pompidou di Parigi. Perché è dallo spazio bianco della meditazione che Cross vuole partire. Dalla ricerca di un centro, di un punto fermo interno da cui si dirama il linguaggio. La danza che parte dall’immobilità, la parola che parte dal silenzio: dal grado zero di tutte le espressioni, dalla disgregazione totale a cui ci hanno portato le avanguardie. E provare ad abitare quel vuoto.

Per questo, per introdurre il nuovo cammino del nostro blog , abbiamo scelto una tela particolarmente rappresentativa di Barnett Newman, uno dei quindici lavori appartenenti alla serie The stations of the Cross, importante perché collocata in un preciso percorso evolutivo del linguaggio. La serie è ispirata alle ultime parole di Cristo sulla croce e come farà poi Mark Rothko nella Rothko Chapel la cristianità e la passione si esprimono in modo indiretto. A volte una linea è più potente di un’intera rappresentazione figurativa.

Così la tela bianca di Barnett Newman, appena solcata da una linea di espressione, come tutti i suoi lavori minimalisti, per noi non è soltanto un’opera ma un luogo. Un punto di partenza. Una potenzialità.
Quel punto che si diceva, in cui il ricercatore deve imparare a stare, osservando tutte le strade senza apparentemente imboccarne nessuna. Ed è qui che arte e spiritualità si toccano. Perché è quello anche il luogo in cui sorge la danza. Il punto fermo al centro del movimento. La sua fonte.  Del resto va’ detto che una delle funzioni dell’arte (e in questo le arti figurative hanno sempre influenzato i tempi con grande anticipo) è quella di indicare la strada. Questi artisti minimalisti degli anni Settanta, portando la figurazione al grado zero, hanno forse inconsapevolmente indicato all’umanità come non fosse più il tempo di esprimersi soltanto, ma fosse arrivato il tempo di imparare a lavorare sull’essere. Sulla qualità del proprio essere.

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Quindi, se dovessimo trovare parole chiave  per i nostri progetti futuri: Il vuoto. Il centro. La danza. Il bianco. L’interiorità. L’abisso. E infine , con grazia, e coraggio, danzare sull’abisso.

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Ospitare il sacro. la Rothko Chapel a Houston

Ospitare il sacro. La Rothko Chapel a Houston. 


Abbiamo scelto la Rothko Chapel per descrivere il luogo in cui Cross vuole andare. Un crocevia , uno spazio vuoto, un luogo di incontro , come del resto è tutto quello di cui si occupa Cross da sempre. Un luogo neutro, asciutto, pensato dall’artista per ospitare tutti i culti del mondo. Un luogo zen, in cui l’artista ha lavorato sul togliere, in cui l’artista scompare e il linguaggio artistico si spegne. Per lasciare spazio al silenzio insondabile della meditazione. Il vuoto.

Già da un po’ del resto l’arte contemporanea ha iniziato a occuparsi di luoghi che non ci sono, di tele bianche, di danzatori immobili. Come un punto zero dal quale rinascere e sul quale saper stare fermi, fissi, in contemplazione.

Così la Rothko Chapel è un simbolo, una cappella allestita a Houston nel Texas secondo la pianta di un ottagono irregolare, dal grande pittore russo-americano Mark Rothko, contenente all’interno 14 dipinti dello stesso. Uno dei principi fondanti con cui è stata pensata  e progettata la Cappella è quello della sottrazione, tanto che per quello che può ricordare la parte cristiana, il genio dell’artista sta nell’aver rappresentato la croce senza mettercela. Qualcosa di zen insomma, ma soprattutto di vuoto, qualcosa pensato per accogliere. Ma del resto come scrive Susan Barnes , la Rothko Chapel è “il primo centro del mondo ampiamente ecumenico, un luogo sacro aperto a tutte le religioni, ma che non appartiene a nessuna. E così è diventato un centro per scambi culturali, religiosi e filosofici internazionali, per seminari e rappresentazioni, e insieme luogo di preghiera privata di individui di ogni fede”. In questo senso l’arte diventa un canale, un’occasione, un veicolo per esprimere la spiritualità a trecento sessanta gradi. E la Rothko Chapel un vero e proprio tempio, post moderno, già pronto per qualsiasi contaminazione, pensato per ospitare idealmente qualunque culto e provare a dare voce a una spiritualità, nuova, libera e senza nome.
Questo è il posto dove Cross vuole andare idealmente. Quando l’arte non è più arte. Non è più linguaggio, ma essenza, manifestazione dell’essere, senza più bisogno di comunicare.

Saper stare, come la Rothko Chapel che invita al raccoglimento, come insegnano i maestri della meditazione, contemplare, lavorare sull’essere invece che sul dire.

Ci sono anche altri esempio nella storia dell’arte contemporanea che possono funzionare in egual misura da ispirazione. Si potrebbe partire dalle sculture di Brancusi o dalle tele bianche di Barnett Newman, e da qualunque cosa aspira ad essere un segno libero, da tutto quello che nell’arte è vicino allo zero.

Un vuoto interessante, che Cross vuole esplorare. Partendo da quella forza che ha avuto certa arte contemporanea di non fuggire l’abisso che hanno lasciato le macerie delle avanguardie, ma provando ad abitarlo. Proviamo a sbucare dall’altra parte, a ricominciare dall’altra parte della tela, che ha bucato Fontana, una volta, in un gesto pazzo. Ricominciamo dal niente, da quelle macerie che possono essere viste da un’altra prospettiva e intese come punto di inizio. Cerchiamo artisti folli, che abbiano il coraggio di danzare su quelle macerie, e ricominciare tutto, per il gusto di farlo, senza lasciare tracce, che abbiano il coraggio di passare dall’altra parte, danzando, in un alito di trascendenza, per il gusto di farlo, per quel gusto, quell’incanto, che passa in un attimo, come un mandala.

Cross si interessa al cambiamento, a tutte le cose che passano, si trasformano, non restano. A noi interessa il passaggio. L’incrocio delle cose. Il bianco, le danze di gruppo, i versi declinati, le scritture nuove, chi ha il coraggio di passare e basta. Cross si interessa a chi ha il coraggio di danzare.

Quello che conta della Rothko Chapel è lo spazio dentro, lo spazio attraversabile, l’opera che si fa’ intanto che viene visitata, quasi invitando il pubblico a cercare il sacro. Perché Cross vuole che gli artisti facciano parlare il sacro attraverso i loro lavori. Vuole che gli artisti tirino fuori il sacro dai luoghi: lo facciano sentire. Di questo ci occuperemo. Ecco che scrivendo l’abbiamo trovato. Del sacro. Bianco. Da ricominciare. Libero. Vuoto.

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